The Holy Trinity | PARTE 1 |: la McLaren P1
Una delle auto più emozionanti, performanti, ambite e all’avanguardia di tutti i tempi. La McLaren P1 è tutt’ora un oggetto capace di smuovere l’animo dei più grandi appassionati e uno di quelli che fanno sognare i grandi collezionisti. Parte da lei la nostra trilogia di retrospettive dedicate alla famosissima ‘Holy Trinity’
La cosiddetta ‘Holy Trinity’. Ferrari LaFerrari, Porsche 918 Spyder e lei, la McLaren P1. Ora ricomposta a oltre 10 anni di distanza da Ferrari F80, Porsche 963 RSP (almeno, per il momento, anche se in questo caso si tratta di una one-off. Per la Casa di Stoccarda si attende ancora una vera e propria erede in serie limitata) e la McLaren W1. Corre l’anno 2013, Papa Benedetto XVI abbandona il suo incarico (a cui succederà Jorge Mario Bergoglio), Michael Schumacher è vittima di un incidente sciistico che cambierà la sua vita per sempre, Lionel Messi vince per il 4° anno consecutivo il Pallone d’Oro, Tony Cairoli si laurea per la nona volta consecutiva Campione del Mondo di Motocross, Sebastian Vettel diviene per la quarta volta Campione del Mondo di F1, Marc Márquez diventa il più giovane Campione del Mondo di Motociclismo nella classe regina e chi vi scrive, partecipa da inviato – per la prima volta in carriera – al Salone dell’Automobile di Ginevra (GIMS), in occasione del quale cade il velo – per presentarsi agli occhi del Mondo – dalla protagonista della nostra storia: la McLaren P1.
Evoluzione della specie: dall’anonimato all’estremamente ricercato
Una vettura oramai iconica, leggendaria. Una vera game-changer che – in quell’anno – insieme a LaFerrari, riscrisse le regole del mercato delle hypercar, portando di fatto anche i costruttori di supercar più blasonati a divenire finalmente completamente protagonisti in questo ambizioso e oramai combattuto segmento. Prima di quel momento, infatti, il settore delle vetture ad alte prestazioni ad elevato tasso d’artigianalità era praticamente proprietà esclusiva di Pagani e Koenigsegg (non è esattamente così, ma vetture come Ferrari F40, F50, Enzo o McLaren F1 erano certamente più saltuarie rispetto a quanto il mercato ci ha abituato oggi). Ma torniamo a noi. Con che presupposti nasce la P1? La nuova hypercar di Woking si poneva fondamentalmente due obiettivi: alzare spaventosamente l’asticella delle prestazioni (sia in termini di performance che di capacità aerodinamiche: Cx, Cr e downforce) e farsi manifesto di nuove avanguardie stilistiche in quel degli UK. E ci riuscì. La P1 non era infatti “solo” la McLaren più prestazionale mai presentata fino a quel momento; era anche la più innovativa in termini di design. Se infatti vetture come la MP4-12C o la – sebbene leggendaria – F1 risultavano un po’ anonime in termini di stile, la P1 era esattamente l’opposto in quel momento: estrema, senza compromessi, maschia, bassa, larga e con un’aerodinamica che sembrava arrivata direttamente dal settore aerospaziale. Se prima di lei le sportive di Woking sembravano deficitare di personalità, la P1 rischiò di sembrare quasi sovra-disegnata all’istante del suo unveiling. A onor del vero, anche colui che vi scrive ci mise un pochettino per comprenderla appieno quando venne presentata. E per iniziare ad apprezzarla veramente – come spesso accade – dovette attendere di vederla dal vivo al Salone di Ginevra 2013 per coglierne appieno tutta la sua esuberante genialità. Ma su questo ci torneremo dopo.

Un nome, una garanzia
“Nomen omen”, si suol dire. Nella parola ‘nomen’ viene contenuta anche la parola ‘omen’. Un concetto molto affascinante e che mette in chiaro che come ci chiamiamo, influenza chi siamo. E questo evidentemente deve valere anche per i prodotti industriali, vista quanta attenzione viene riservata proprio alla scelta del nome, esattamente come facciamo noi esseri umani quando siamo in attesa di un erede. Perché anche reparti marketing e interi team di sviluppo ben sanno quanto questo andrà ad influenzare percezione di prodotto e impatto collettivo. E iniziamo proprio da qui per andare a scoprirne l’essenza: il nome McLaren P1 deriva – come giusto aspettarsi da un marchio con tanta storia in Formula 1 – dalle competizioni. Nei Gran Premi infatti, la sigla ‘P1’ indica proprio il primo posto in griglia. Ma c’è di più: parlavamo di eredi. Ed essendo la P1 l’erede concettuale diretta della F1, quest’ultima era inizialmente conosciuta come Project 1, o P1 durante il suo sviluppo. E da questa commistione di fattori dunque, arriva la nomenclatura della protagonista del nostro articolo: la P1 manifestava infatti già nel nome la sua dichiarazione d’intenti, ovvero essere “la migliore auto al mondo di quei tempi sia in strada che in pista”. Questa almeno l’intenzione della McLaren in fase di sviluppo. Ed una serie di risultati di test e sviluppo nel corso del 2013 confermarono questa premessa: la McLaren P1 girò infatti al Nürburgring, sulla Nordschleife, in un tempo inferiore ai 7 minuti. Un tempo che nel 2016 venne poi limato a 6:43.20 dalla P1 LM. Nulla fu lasciato al caso: pensate che nel corso del suo programma di sviluppo la vettura percorse oltre 620.000 km di test. Ovvero più di 15 volte il giro del Mondo.
Nata per primeggiare: la parola ai numeri
E per comprendere fino in fondo la quintessenza di questo progetto, non si può non passare dalla porta delle caratteristiche tecniche e dei numeri della P1. Il suo cuore è infatti un V8 biturbo da 3.8 litri (caratterizzato dal codice di progetto M838TQ e con tanta tecnologia derivata dalla Formula 1) da solo capace di sviluppare 737 CV e 720 Nm e che viene affiancato nel funzionamento da un motore elettrico da 179 CV e 260 Nm. Il tutto per un totale di 916 CV di potenza e 980 Nm di coppia. Valori che permettono all’hypercar di Woking di ‘bruciare’ lo 0-100 km/h in 2.8”, di sprintare da 0 a 200 km/h in 6.8 secondi e di coprire lo 0-300 km/h in soli 16.5” (5” più veloce della McLaren F1). Il tutto per una top speed autolimitata elettronicamente a 350 km/h. E se alle performance pensa – sopra ogni cosa – il powertrain, il contenimento del peso è affidato, soprattutto, al suo telaio: una monoscocca in fibra di carbonio di tipo MonoCage, con tetto al centro (ed evoluzione della struttura MonoCell utilizzata sulla MP4-12C), e che ferma l’ago della bilancia su un peso a secco di soli 1.395 kg (con un peso in ordine di marcia contenuto a quota 1.490 kg). A contenere le masse sono anche i pannelli della carrozzeria, anch’essi realizzati in fibra di carbonio e costituiti da un grande guscio, da pannelli anteriori e posteriori in singolo stampo e collegati al MonoCage centrale, da due piccoli sportelli di accesso nella parte posteriore, dal cofano anteriore e dalle due porte. Con un peso complessivo di soli 90 kg, i pannelli sono al contempo estremamente sottili e resistenti. La batteria trova invece spazio in basso all’interno della monoscocca e pesa solamente 96 kg. (ricordiamo infatti che grazie a questa e all’unità elettrica, la vettura può muoversi per pochi km in modalità completamente elettrica a emissioni zero. Un ottimo range-extender per la guida in città). E nell’ottica del contenimento dei pesi non vennero utilizzate né la moquette, né tantomeno i pannelli fonoassorbenti. Un obiettivo al cui raggiungimento concorrevano anche i vetri: quello del tetto venne temprato chimicamente e aveva uno spessore di soli 2.4 mm. Sottilissimo anche il parabrezza: soli 3.2 mm di spessore e con intercalare in materiale plastico: il tutto per risparmiare 3,5 kg rispetto al parabrezza da 4.2 mm di spessore impiegato sulla MP4-12C.

L’aerodinamica al centro del progetto
Ma parlare di numeri e di tecnica significa parlare anche di aerodinamica. A partire da uno degli elementi che maggiormente caratterizzano tanto le performance della stessa, quanto anche l’estetica della vettura, ovvero la sua imponente ala mobile posteriore: un vero e proprio DRS (Drag Reduction System) – una soluzione di derivazione F1 – che ha lo scopo di ridurre la deportanza e aumentare la velocità in rettilineo; un’ala mobile in grado di estendersi fino a 300mm in pista e fino a 120mm in strada. In cosa si traduce una simile attenzione riservata al comparto aerodinamico? Bhé, la combinazione di modellazione aerodinamica CFD (fluidodinamica computazionale) e di molte ore in galleria del vento ha permesso di ottenere una deportanza di 600 kg a una velocità ben inferiore a quella massima. Ma ovviamente la dotazione tecnica della McLaren P1 non si limita a questo: la vettura è infatti dotata di uno scarico in Inconel (soluzione anch’essa mutuata dalla F1) che segue il percorso più diretto dal motore alla sezione posteriore e che pesa solamente 17 kg. Inoltre i dischi carboceramici sono rivestiti in carburo di silicio e consentono il completo arresto da 100 km/h in soli 30.2 metri. Ciliegina sulla torta, in modalità Race l’auto si abbassa di 50mm e la molla si irrigidisce del 300 %. Risultato? Questa incredibile hypercar è capace di percorrere curve con un carico laterale superiore a 2g! Abbiamo parlato del contenimento del peso. L’essenzialità è infatti al centro di questo progetto altamente vocato alla sportività. E per comprenderne appieno il significato basta aprire la portiera e dare uno sguardo in abitacolo (che come per l’esterno, ha influenzato poi lo stile di tutte le McLaren che sono seguite): non c’è nulla di più di quel che serva. Esattamente come su un’auto da corsa: il dialogo guidatore-auto è riservato interamente a due schermi, uno per la strumentazione e uno a centro plancia e solo a una manciata di tasti fisici posti lungo il tunnel. Per il resto anche il volante è estremamente minimal e coadiuvato da satelliti alle spalle e da paddles che seguono lo sterzo (il diametro del volante inoltre è mutuato dalla F1: le manopole delle monoposto sono state modellate su un sistema CAD durante lo sviluppo e scansionate per produrne una replica perfetta). Tutto il resto non è altro che un trionfo di superfici in fibra di carbonio a vista e di rivestimenti in pelle e Alcantara. Non c’è altro. Ed è proprio questo a renderla bellissima. Le superfici trasparenti che consentono l’ingresso della luce naturale in abitacolo si ispirano invece agli aerei da caccia e i due pannelli in vetro riflettenti sopra l’abitacolo migliorano ulteriormente visibilità e ariosità del cockpit, mentre il tettuccio a forma di goccia ottimizza il flusso d’aria verso l’alettone posteriore seguendo il mantra della forma legata alla funzione.
Gli uomini che ne condizionarono le forme
Un mantra che ben osservabile anche dall’esterno: le forme sono tanto ricercate quanto al tempo stesso essenziali e sono guidate – in particolar modo dalle portiere scolpite – dalla volontà di veicolare l’aria verso punti specifici dell’auto (in particolar modo verso la coda e quindi verso l’ala mobile), come imposto dall’Ingegnere Capo-Progettista Parry-Williams e dal suo team evolvendo dei concept già visti sulle vetture che hanno corso a Le Mans perfezionando, nel corso del processo di Concept Design, lo stile finale, rispettando comunque tutti i requisiti aerodinamici, di raffreddamento, di packaging e di produzione. Nel corso di questo processo sono stati sviluppati dettagli come lo snorkel sul tetto, i sistemi di aspirazione dell’aria del radiatore, l’aerodinamica del sottoscocca anteriore, il sistema di raffreddamento a “bassa temperatura” e il raffreddamento del vano motore. Ciò ha comportato una progettazione estremamente approfondita anche tramite simulazioni CFD volte ad analizzarne l’efficienza aerodinamica e di raffreddamento. Lavorando a stretto contatto con Parry-Williams, il Direttore del Design, Frank Stephenson, desiderava un’auto che fosse “accattivante ma anche funzionale, una vera e propria dichiarazione d’intenti. Volevo una ‘supersportiva’ autenticamente bella e straordinariamente autentica, in linea con la tradizione McLaren ma anche all’avanguardia nel design automobilistico”. Il frontale a ‘testa di martello’ conferisce alla vettura un aspetto basso e largo, ma, come ogni elemento della vettura, svolge anche un’importante funzione: il suo stile mira a dirigere il flusso d’aria verso due radiatori a bassa temperatura montati anteriormente, che raffreddano l’aria turbocompressa del motore termico e il sistema elettrico del gruppo propulsore IPAS. I fari a LED stretti, dalla forma ispirata al logo McLaren, ottimizzano gli spazi della sezione frontale, che diviene così maggiormente utilizzabile per il raffreddamento. La conformazione delle prese d’aria sul cofano è interamente dettata dalla funzione: queste convogliano l’aria calda in uscita dai radiatori anteriori, lasciando un canale di aria pulita e fredda per alimentare il condotto di aspirazione del motore che è montato sul tetto. L’aria calda, diretta sopra il tetto della vettura, contribuisce ad aumentare la deportanza, ma viene tenuta lontana dalle fiancate, veicolando così aria fresca in aspirazione ai radiatori laterali principali. Nella sezione posteriore invece, i fari a LED sono quanto più sottili possibile per massimizzare la superficie di fuoriuscita dell’aria calda. Questa caratteristica di stile posteriore, che evidenzia il bordo della carrozzeria, è stata ispirata dai prototipi sportivi da corsa. Il posteriore dell’auto è completamente aperto per favorire il raffreddamento ed estrarre l’aria turbolenta dai passaruota posteriori, favorendo così il flusso aerodinamico. Dulcis in fundo: ogni McLaren P1 è stata realizzata su misura da un team di 82 tecnici in un processo di assemblaggio in quattro fasi. Dall’inizio alla fine, la costruzione di ogni vettura ha richiesto 17 giorni e fin dal momento della sua presentazione è stata oggetto delle attenzioni dei più grandi collezionisti, al punto che – come era facile attendersi – la vettura è andata esaurita a pochi mesi dal lancio e già nel novembre dell’anno del lancio (ovvero a marzo 2013) tutte le 375 vetture erano già state assegnate.
Back to the Future: GIMS 2013
E qua torniamo all’inizio: quando vi dicevamo che anche colui che vi scrive ci mise un pochettino per comprenderla appieno. Correva l’anno 2013 e chi vi sta scrivendo (all’epoca 29enne) militava tra le fila di una praticamente neonata testata WEB a diffusione nazionale (e alla quale contribuì molto nella nascita). E per la prima volta in carriera si ritrovava a vivere come inviato sul campo quello che forse era il Salone automobilistico più importante ad andare in scena nell’area geografica del Vecchio Continente, ovvero il GIMS, acronimo di Geneva International Motor Show, più comunemente conosciuto dagli appassionati come il Salone di Ginevra. Un evento che per quasi 90 anni (venne poi cancellato definitivamente nel 2024) ha rappresentato l’appuntamento automobilistico per eccellenza, tanto in Europa quanto nel Mondo (nonostante l’importanza di altre fiere in altri Continenti, come a L.A. o a Detroit, tanto per fare degli esempi, era a conti fatti l’evento automobilistico mondiale per antonomasia: lì era dove le Case automobilistiche decidevano di presentare i modelli davvero importanti dei loro listini ed esserci… bhé, significava avere rilevanza. Essere davvero qualcuno in quell’ambiente. Motivo per il quale ogni professionista del settore calendarizzava con regolarità la propria presenza a questa esibizione. E anche noi siamo fieri di avervi documentato in chiave nostra la nostra presenza alle ultime edizioni: trovate qua linkati i nostri report di viaggio con Grand Cherokee, Stelvio e Levante). E viverlo per la prima volta sul campo è stato qualcosa di molto sentito da parte di chi vi scrive. E quell’anno nell’aria c’era grande fermento: sia perché il sottoscritto sentiva molto la sua presenza lì, volendo fare bene il suo (per chi non lo sa, vivere un Salone dal punto di vista giornalistico è un impegno estremamente pressante. Le novità sono tantissime e tutte da raccontare in maniera accurata in poco tempo, con giornate che iniziano alle 5:30 del mattino e spesso finiscono a mezzanotte/l’una praticamente senza interruzione), sia perché due delle vetture che sono poi andate a comporre la cosiddetta ‘Holy Trinity’ debuttavano lì e praticamente in contemporanea: la protagonista del nostro racconto e la Ferrari LaFerrari (di cui vi parleremo nel prossimamente, così come anche della Porsche 918 Spyder). Entrambe coperte dai rispettivi teli appena la stampa entrava la mattina presto negli spazi dell’esposizione.
In foto: il nostro Direttore, all’epoca 29enne, in posa davanti alla McLaren P1 nel giorno del suo unveiling al Salone dell’Automobile di Ginevra 2013 mentre lavorava come inviato dalla Svizzera

Il ricordo personale. L’emozione della prima volta dal vivo: troppo geniale per i suoi tempi
E per entrambe già si ‘spettegolava’ tra colleghi sulle navette che portavano dal parcheggio al Palexpo [cose come: “hai sentito come hanno chiamato la nuova Ferrari?” (al contrario della McLaren, che era già stata annunciata nei giorni precedenti con foto e comunicato che ne anticipavano forme, nome e caratteristiche, della controparte di Maranello non si sapeva nulla, se non il fatto che sarebbe stata la prima vettura ibrida del Cavallino. Oggi sembra scontato, ma all’epoca una soluzione mutuata dal KERS di F1 era rivoluzionaria, specie per una Rossa); o “ma tu cosa ne pensi di questa e di quella?”]. Una cosa era chiara: le regine del Salone, quell’anno, sapevamo già tutti prima di arrivare lì quali sarebbero state. E poi, nel primo dei due giorni riservati alla stampa, quel momento tanto atteso: i teli rispettivamente arancione e rosso cadono dalle due novità più attese dell’anno e per la prima volta nella storia – eccezion fatta per chi ci ha lavorato – qualcuno poteva finalmente osservarle dal vivo. Gli uomini di Maranello accorrevano nello stand della Casa di Woking mentre ovviamente avveniva anche il contrario, come normale attendersi tra due grandi e storici rivali. Ognuno voleva vedere da vicino e di persona, per la prima volta, come aveva lavorato l’altro. E quanto temersi e studiarsi a vicenda quindi. E per il sottoscritto che per tutto il giorno era stato in sala stampa dietro a un PC a comunicare al pubblico le grandi novità del Salone, ricevendo giga di foto dai fotografi per metterle on line, quel momento tanto atteso di poterle finalmente osservare di persona e con relativa calma arrivò finalmente solo a fine giornata. Erano finalmente entrambe lì, davanti ai miei occhi. Entrambe larghissime e bassissime. Ed entrambe bellissime. Ma di una bellezza molto diversa tra loro: la Ferrari ti colpiva dritta al cuore per il suo mix di eleganza e sportività, per la ricercatezza delle forme e dei dettagli. Nulla lì era lasciato al caso. Capivi immediatamente che ogni singolo elemento della vettura – da quello più macroscopico a quello più ‘insignificante’ – aveva richiesto decine o centinaia di ore di progettazione, sviluppo e disegno; la McLaren invece si imponeva con la forza di un montante sotto al mento per il suo essere estrema. Chi vi scrive pensa di non aver mai visto nulla di così radicale e privo di compromessi prima di quel momento. Le sue linee erano così essenziali e futuristiche da lasciarmi ancora perplesso, ancora non riuscivo a comprenderla bene. Ne capii poi il perché: era troppo avanti per il suo tempo. Troppo avanti anche per noi giovani dell’epoca. Troppo geniale per il periodo che stavamo vivendo (un po’ come accadde per la prima MV Agusta Brutale, di cui vi parliamo nel dettaglio QUI). Ci voleva di più per capirla, per amarla. Se LaFerrari si faceva infatti apprezzare sin da subito (sebbene fosse la Rossa più bella mai vista fino ad allora, le sue forme erano certamente più armoniose e classiche per il gusto di quei tempi), qua servì del tempo per comprenderne appieno tutta l’immensa genialità. Perché la P1 era così: sembrava un oggetto proveniente dal futuro tramite un portale dimensionale. Era troppo all’avanguardia per chi viveva in quel momento. Il resto? Il resto è storia: la costruzione del primo dei 375 modelli di produzione, con verniciatura Ice Silver, venne terminata nel settembre 2013, quando la vettura si era ormai affermata come un riferimento assoluto per le sue prestazioni. L’ultimo esemplare ordinato è stato completato nel dicembre 2015 e vestiva uno splendido arancione perlato, un colore ottenuto grazie a un esclusivo processo di colorazione che è diventato poi disponibile in altri modelli McLaren con il nome di Volcano Orange. E oggi, quest’auto, è una delle vetture più ambite dai collezionisti, nonché una delle vetture più significative mai prodotte nella storia delle quattro ruote. God Save the P1!.