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Virginio Ferrari: “Il titolo nel ’79? Mi è sfuggito solo per tre gare sfortunate”

Un vis-à-vis con Virginio Ferrari in occasione di una serata a Motosplash in cui è tornato a vivere il mito della Paton

La passione: è questo l’elemento che muove i motociclisti. Tutti. Siano essi semplici utenti della strada, pistaioli, piloti o costruttori. E’ quest’ultimo il caso della Paton, un’azienda milanese nata nel 1958 dalle ceneri della Mondial (che insieme alla MV Agusta, alla Gilera e alla Moto Guzzi nel ’57 firmò il famoso “patto d’astensione” – per via dei crescenti costi delle corse che toglievano attenzione al mercato – il quale portò le Case italiane fuori dal Mondiale; sebbene il conte Agusta fece presentare le sue moto al via l’anno dopo sotto il marchio Privat) per volontà di Giuseppe Pattoni e Lino Tonti, tecnici della Casa italiana che rinunciarono alla loro liquidazione in cambio dei materiali di avanzo del Reparto Corse.

Ciò permise la nascita della Paton (nome che deriva dalle iniziali dei cognomi dei due ex tecnici Mondial), storico marchio milanese a cui nella serata di giovedì 29 gennaio è stato dedicato, presso lo spazio di Motosplash a Milano, un evento che l’ha visto protagonista insieme ad alcuni suoi volti del passato, tra cui Virginio Ferrari, e del presente (Roberto Pattoni, figlio di Giuseppe che ha al momento le redini dell’azienda).

Nel corso di una bella serata densa di emozione e passione, e moderata da Nico Cereghini e da Maurizio Tanca, ha quindi rivissuto lo spirito di questa azienda che ha trovato nelle corse, e nel Tourist Trophy in maniera particolare, la sua vera linfa vitale.

Tra passato e presente

Passando dalle avventure che hanno connotato il marchio milanese dai suoi albori ai giorni nostri attraverso aneddoti, storie e curiosità, l’evento ha permesso a tutti i presenti di conoscere al meglio un pezzo molto importante del motociclismo italiano, al fianco delle moto che dallo scorso anno caratterizzano l’attuale produzione della Casa dai colori verde e giallo, ovvero la S1, una motocicletta stradale dal “sapore” retrò connotata da un connubio composto da linee classicheggianti e dall’impiego di tecnologia moderna, e due repliche da corsa, la BL3 R (riedizione del 1968) e la BM3 R (riedizione del 1973).

Dotate di un motore Kawasaki bicilindrico (della famiglia ER-6N) incastonato all’interno di un telaio realizzato in maniera artigianale, le Paton della produzione odierna (che hanno preso parte al TT 2014 nella categoria lightweight) “sono nate con lo scopo di ben figurare nelle esposizioni o nelle parate, ma per fortuna, mentre progettavamo (il bicilindrico, ndr), ci siamo detti: ci sono anche le gare di moto classiche. Questa intuizione fu la nostra salvezza, poiché le moto che abbiamo venduto dal 2003 corrono tutte e con dei risultati importanti – dichiara Roberto Pattoni – in quanto abbiamo curato le prestazioni sempre tenendo fede al progetto iniziale”.

“La potenza è quella del motore di serie. Il vantaggio enorme (che ha rispetto alla Kawasaki, ndr) è che la moto pesa 35 kg in meno della ER-6N, e senza interventi al propulsore si riescono a “tirare” 3 o 4 denti di corona in meno: la moto è più veloce del 10% e passa i 220 km/h. La peculiarità del motore Kawasaki è che è identico al bicilindrico (quello che ha caretterizzato le Paton di un tempo, ndr); è il suo fratello più giovane. E’ bi-albero, 4 valvole, 180° di fase con cambio estraibile: quindi anche il rumore ricorda quello di un tempo. Un esempio su tutti: il primo prototipo che presentammo in fiera due anni fa – conclude Roberto Pattoni – ospitava il propulsore all’interno di un telaio della riedizione; quindi anche le misure erano quelle. Adesso stiamo facendo un grosso lavoro per trovare dei dealer che credano in questo progetto e che ci garantiscano almeno un numero adeguato per poter partire. I prezzi partono, senza IVA, da circa 18.000 euro”.

Una moto che emoziona anche Virginio Ferrari

Tanto entusiasmo nel vedere questa moto rivivere anche da parte di Virginio Ferrari, ex pilota Paton, che dichiara: “Il bicilindrico della Paton vive in questo momento una seconda giovinezza. Questo motore mi ricorda quello della Yamaha (quella impegnata nel Mondiale e sua antagonista in pista, ndr) perché estremamente compatto (anche se quello di Iwata è un 4 cilindri frontemarcia e quello Paton bicilindrico frontemarcia). Quello Paton era un motore estremamente verticale, quindi la concentrazione del baricentro su un certo punto preciso della moto permetteva di avere un bilanciamento particolarissimo e di conseguenza ancora oggi questa moto è incredibile”.

Parlando invece delle tue gesta sportive; c’è qualche aneddoto che ricordi in maniera particolare?

“Nel ’75 con “Peppino” (appellativo con cui era conosciuto Giuseppe Pattoni, il fondatore, ndr) andammo a Rimini da Tamburini – prosegue Virginio Ferrari – e lui stava già lavorando su un telaio di nuova concezione. C’era un’amichevole diatriba tra i due: Peppino pretendeva di avere la possibilità di smontare i cilindri in maniera rapida e veloce, mentre Massimo (Tamburini, ndr) aveva una concezione totalmente diversa. Per Massimo si doveva poter arrivare in circuito, togliere il motore e sostituirlo con un altro appena necessario e questo portava ad una incomprensione con Peppino, il quale titubante osservava la moto dichiarando: “se andém avant ‘insì, andém indré!” (se andiamo avanti così andiamo indietro, ndr).Massimo iniziava a ridere e ognuno dei due finiva per tirare l’acqua al proprio mulino”.

Quanta differenza c’era tra la tua moto e quella di Roberts nel ’79, anno in cui arrivasti vicino al Titolo Mondiale?

“Con il senno di poi Kenny (Roberts, ndr) ne aveva (di margine di superiorità, ndr) molto di meno di quanto noi credessimo. Questo è un merito in più che io do a lui. Kenny – continua Ferrari – era sicuramente messo meglio rispetto a noi in fatto di gomme. Sulle gomme non ho dubbi che avesse un grosso vantaggio. La Yamaha – che aveva le valvole sullo scarico ed una serie di particolari che stavano cercando di sviluppare: se ricordate sullo schieramento di partenza avevano sempre un telo copri moto appoggiato vicino alla strumentazione, quindi si immaginava ci potesse essere qualche “alambicco” strano – pagava un pegno in termini di reattività alla Suzuki. In quanto a potenza massima ed accelerazione eravamo praticamente uguali, ma in velocità di punta lui aveva qualcosa di più, forse dovuto alle valvole sullo scarico che permettevano di avere maggior allungo in alto”.

La tua gara più bella è stata Assen del ’79. Un duello mitico con Barry Sheen. Cosa è mancato per farti vincere il titolo quell’anno?

“Noi purtroppo abbiamo perso troppi punti nella trasferta Svezia-Finlandia-Inghilterra: sono state tre corse catastrofiche perché se soltanto in quelle gare avessi fatto meno che negli altri GP, ovvero anche solo un 4° posto in tutte e tre le manche, sarei stato abbondantemente in testa al mondiale, invece a Karlskoga in fondo al rettilineo, a inizio gara, ho grippato. In Svezia la moto sarebbe stata perfetta per come avevamo fatto le prove. Kenny era in leggera difficoltà: in prova, nel doppio destra che c’è prima del rettifilo – conclude Virginio Ferrari – andò a lambire la striscia bianca e volò via, cosa che lo segnò: nella prova successiva non era più lo stesso, quindi io speravo molto nel fattore psicologico, ma poi non andò così. In Finlandia rompemmo di nuovo mentre a Silverstone cercai di avere un cambio particolare per fare più velocemente (come sentivo di poter fare) i curvoni da quarta e quinta, ma non avevo il motore che corrispondeva a ciò che desideravo. Iniziammo a lavorare sul cambio e trovammo ciò che credevamo essere la panacea dei nostri mali. Al via mi son cascate le braccia: il motore non andava come speravo, ho cercato di tenere il passo dei primi ma con quel cambio non ci sono riuscito e ho quindi finito 4°. Quelle tre tappe mi hanno “guastato la festa”. A Le Mans sarei potuto essere più tranquillo se quelle tre gare fossero andate bene, invece mi sono messo in bagarre con Barry e ad un certo punto in frenata mi sono messo quasi di fianco a lui, il quale pian piano mi portò fuori e quando sono rientrato in pista non ho pompato il freno. Dopo una variante questo è andato a vuoto proprio perché non avevo pompato al rientro sul tracciato e per evitare di tamponare Ceccotto mi sono buttato fuori e sono caduto”.

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