Nicola Andreatta, Pineider: “Il lusso è tempo. E il tempo è ciò a cui diamo valore”
Il General Manager di Pineider ci ha raccontato la sua visione controcorrente al centro del rebranding del celebre marchio fiorentino in un’intervista a tutto tondo. Ecco cosa ci ha detto
In un mondo che corre, Pineider sceglie di rallentare. Di prendersi il tempo per fare bene, per custodire la bellezza di un gesto, di una parola scritta, di un oggetto che dura. Alla guida di questo approccio, Nicola Andreatta, General Manager di Pineider, traccia una rotta chiara: quella di un lusso consapevole, colto e radicato nella migliore tradizione artigiana italiana. In questa intervista ci racconta cosa significa oggi essere un brand di lusso, come si bilancia l’esclusività con la visibilità e quale visione accompagna Pineider nel futuro.

Il tempo è una parola centrale nel lessico del lusso. Cosa significa per Pineider?
“Ho passato quasi tutta la mia carriera a parlare di tempo. Se parliamo di lusso, oggi il tempo è in assoluto il lusso più grande che c’è. E poi qua si celebra il tempo, nel senso che per fare le cose che facciamo ci vuole tempo”.
Come scorre il tempo in Pineider?
“Il tempo da noi scorre nella ricerca di continua innovazione. Partiamo dalla volontà di fare delle cose belle: di costruire oggetti che accompagnino le persone nel corso della loro vita. Per noi è fondamentale che si crei un legame emozionale tra noi stessi e quegli oggetti che ci accompagnano nei momenti più importanti della nostra vita. E questo non è un processo banale, se pensiamo ad esempio ad un oggetto come un telefono, che dopo tre mesi ha già un software vecchio. Gli oggetti che facciamo noi sono oggetti che durano, che ci accompagnano. Pensiamo all’orologeria: c’è un famoso brand che racconta di come quell’oggetto venga trasmesso di padre in figlio. Mi piace pensare che in Pineider è qualcosa di molto simile. C’è uno stesso modo di intendere le cose; i nostri oggetti durano nel tempo, sono fatti con estrema cura, in Italia e in maniera artigianale. E questo forse è quello che ci rende anche un po’ diversi da buona parte dei nostri competitor. Oggi si tende a definire lusso tutto quel che costa tanto. Invece il lusso parte da un concetto sostanzialmente diverso. Il lusso è qualcosa che bramo, qualcosa di difficile da raggiungere, non necessariamente solo per il prezzo. Ritengo per esempio che l’esclusività sia uno dei caratteri del lusso che deve essere preso in considerazione in maniera molto più importante rispetto all’idea di dover spendere tanto per una cosa. E oggi di cose esclusive ne restano poche. Alcuni sono diventati oggetti che hanno tutti e a quel punto per me diventa un po’ più complicato parlare di lusso”.
Quello è un lusso commerciale…
“Esattamente. Il lusso vero lo vedo più come qualcosa di più difficile da raggiungere. Difficile da ottenere e ancora più da creare. Per fare le cose che facciamo noi ci vuole tempo e il tempo costa. E nella logica commerciale o aziendale di certi colossi diventa difficile poter disporre di questo tempo. Quando si fanno tanti pezzi della stessa cosa la prima caratteristica a cui penso è l’efficienza. Quindi la capacità di fare di più con meno. Questo è esattamente il contrario di quello che è il nostro approccio al prodotto. Noi vogliamo fare potenzialmente meglio, ed è assolutamente quello l’obiettivo”.
Potrebbe essere una delle vostre logiche ragionare, magari in futuro, un po’ come certe marche di orologi, che rendono disponibili i propri prodotti su ordinazione?
“Il bespoke diventa una parte sempre più fondamentale del lusso proprio per quello che dicevo prima. Se consideriamo il mondo e non più solo l’Italia come mercato, il parterre su cui offrire un certo tipo di prodotto alla fine ce l’hanno in tanti. Quindi se voglio qualcosa di veramente speciale, di veramente unico, si comincia ad andare sul bespoke che è diventato un po’ la nuova frontiera del lusso. Lo vediamo nelle automobili, lo vediamo nell’orologeria ma lo vediamo anche in quello che facciamo noi. Stiamo lavorando proprio per costruire un’offerta che non si possa trovare altrove. Devi venire da noi e la costruiamo insieme. È un lavoro che contiene la passione, contiene l’attenzione per quello che desidera il cliente, per qualcosa di molto particolare. Senza snaturare la visione di Pineider, perché questo è un altro carattere fondamentale del lusso. Il brand di lusso crea. E quindi ascolta il cliente. Tutti i brand cercano di essere sempre più client-centric, ma allo stesso tempo il creatore sono io: sono io che ho un punto di vista sul design, sul mondo, su quello che creo e questo deve essere sempre rispettato. È quello che crea unicità”.
Ha parlato di mercati. Quali sono quelli che vi interessano di più in questo momento?
“Chiaramente l’Italia perché qui siamo nati e perché c’è una storia importante. Motivo per il quale abbiamo persone che ritornano da noi. E questo è dovuto a ciò che il brand ha rappresentato nel tempo. 250 anni di storia non si costruiscono dal nulla e sono una rarità: non solo in Italia ma nel mondo. E questo chiaramente è un valore importante di Pineder: se siamo esistiti fino a oggi evidentemente qualcosa interessante e bello lo abbiamo fatto. Ed è proprio forse la prossima frontiera di Pineder. In Italia abbiamo una presenza abbastanza buona ma ritorno a quello che dicevo prima: l’esclusività. Per me è un carattere fondamentale quindi non deve essere fruibile dappertutto: deve essere fruibile in luoghi particolari dove il cliente vive il mondo e l’universo Pineider, che va al di là del prodotto. È un lusso che diventa sempre più esperienziale. Io vorrei costruire un mondo nel quale culturalmente diventiamo rilevanti per il cliente che si avvicina a Pineider. E cultura vuol dire tutto quello che è servito per costruire quel che siamo oggi. La prossima frontiera sarà quella di aprire Pineder al mondo ed abbiamo fatto molto poco in passato: è uno di quei temi fondamentali che sono sul tavolo e che oggi cominciamo a sviluppare. È chiaro che per la natura di quello che facciamo e per l’offerta merceologica che abbiamo necessitiamo dei partner giusti. E questo è un po’ più complicato, perché non vogliamo essere dappertutto: dobbiamo trovare i posti giusti perché dobbiamo trovare l’ambiente giusto in cui costruire un’offerta che abbia un senso per quello che siamo noi”.
La vostra potrebbe essere una concezione un po’ più simile a quella della Pagani per esempio, dove se uno vuole la vettura, viene a vivere anche l’esperienza di venire in azienda e a vivere l’Italia, perché non si può comprendere un prodotto del genere se non si vive in prima persona anche l’environment nel quale è inserito…
“È chiaro che uno dei pregi di Pineider è il fatto di essere italiana. E abbiamo seguito un po’ la storia del Paese, perché 1774 non c’era neanche l’Italia. Ma dal momento in cui è stata Italia noi ci siamo stati, perché quando la Capitale d’Italia era Firenze noi c’eravamo e siamo diventati fin da subito uno dei partner fondamentali del nuovo Governo italiano. Quando la Capitale è stata trasferita a Roma, nel 1871, abbiamo aperto in via Condotti nella Città Eterna e anche lì abbiamo iniziato ad essere partner del nuovo Governo italiano. Siamo stati sempre collegati con una dimensione culturale un po’ più sofisticata rispetto a tanti altri marchi che hanno una storia importante come la nostra. Da noi nel tardo XVIII secolo, quando in Europa esplose la moda del Grand Tour e i rampolli aristocratici del Vecchio Continente venivano in Italia a scoprire la vita, noi eravamo sicuramente uno dei punti principali in cui arrivavano. Tant’è che personaggi come Stendhal, Goethe e Lord Byron si sono avvicinati a Pineider perché rappresentavamo un’eccellenza per quello di cui avevano bisogno: che era comunicare. A me piace sempre fare una sorta di paragone tra quello che per esempio Apple rappresenta oggi e quello che rappresentavamo noi nel XVIII secolo. Nel XVIII secolo noi producevamo mezzi per poter comunicare: la carta, la carta stampata, la carta personalizzata, le penne e tutto quel che girava intorno a questo mondo. Quando abbiamo cominciato con la pelletteria non facevamo altro che creare oggetti che aiutassero nella gestione di quello che era il metodo di comunicazione di quel momento. Chiaramente i tempi sono cambiati: oggi in un mondo molto più veloce, il discorso è diventato completamente diverso. Parlavamo del tempo come lusso all’inizio: oggi ci vuole tempo per scoprire, per vivere il mondo Pineider. Ma è proprio quello che ci piace. Con un mondo che va così veloce, con l’incertezza che vediamo un po’ dappertutto, il poter dedicare un momento a sé stessi: il piacere di riscoprire la parola, la scrittura, una carta fatta in una certa maniera, una penna e un tratto che scrivono in un certo modo, sono dei lussi che sicuramente non sono per tutti”.
Assolutamente. Bello anche pensare di essere stati parte della storia di un Paese addirittura da prima che il Paese nascesse…
“È un dato di fatto. Noi qui ci siamo sempre stati: siamo arrivati in Piazza della Signoria quando si chiamava Piazza del Granduca, cioè da ancora prima che ci fosse la vera Piazza della Signoria. Siamo arrivati prima che il David di Michelangelo fosse spostato: cioè c’era ancora quello vero”.
Sono tutti aneddoti estremamente interessanti. Quando si attraversano città come Firenze o Roma, che hanno così tanta storia da raccontare, a volte capita di fermarsi a pensare a chi è passato di lì prima di noi. È impressionante pensare ad esempio che nella Basilica di San Pietro, mentre noi siamo lì per turismo, in quel preciso punto è stato incoronato Carlo Magno… Sono cose che colpiscono quando ci si fa caso…
“Recentemente abbiamo lavorato sulla ricostruzione della nostra storia e ci mancavano alcuni tasselli. Avevamo la certezza dell’inizio, nel 1774. Ma già scoprire chi era il signor Pineider per noi è stato complicato. Capire perché è partito dal Trentino per venire a Firenze. Lo ha fatto per molte ragioni. E una di queste era che tra i masi della valle in cui è nato il signor Pineider vigeva una legge particolare per cui il secondo genito non ereditava e quindi probabilmente lui era il secondo genito e non ha preso i soldi, la dote. E quindi è dovuto partire per cercare fortuna. Aveva un amico a Firenze e ha deciso che in quel momento quello era il luogo dove la vita culturale italiana si stava sviluppando. E quindi ha aperto a Firenze. Pensiamo alla difficoltà… pensiamo al fatto che lui veniva da un luogo dove si faceva agricoltura e si parlava un dialetto molto particolare e si è trovato nel posto più vivace d’Italia e forse nel mondo in quel momento…”.
E si era formato da relativamente poco anche l’italiano con Dante, Petrarca, Boccaccio… Ma quali sfide deve affrontare oggi un’azienda come Pineider?
“Sicuramente abbiamo la necessità di farci conoscere di più. Per tutti i brand che sono un po’ più piccoli sussiste spesso questa dicotomia tra la necessità di essere visibili e di essere conosciuti, ma allo stesso tempo restare esclusivi, se vuoi restare con la piccola perla da scoprire. Gestire questa dualità tra la necessità di essere visibili e scoperti e il rimanere esclusivi è uno dei temi fondamentali per noi. Non vogliamo fare le cose male. Vogliamo crescere, ma vogliamo farlo nella maniera giusta: senza fretta. Questa è forse la sfida principale: riuscire a crescere senza tradire quelli che sono i valori del marchio. Io vorrei assicurarmi una sorta di ruolo da protettore della storia di Pineider: che fossimo in grado di crescere, di sviluppare questo brand pur senza tradire quelli che sono i valori fondamentali del nostro DNA, che poi sono quelli che dicevo prima: questa sofisticazione culturale, questa attenzione al dettaglio, questo saper fare italiano. Il fatto di restare assolutamente italiani con la produzione e tutte queste cose”.
Una bella presa di coscienza questa perché non è comune…
“Ci sono vie più facili e lo stiamo vedendo… Di paragoni con l’automotive ce ne sono tanti. E ritorniamo al discorso di prima: quei grandi che sono diventati così grandi e che è un po’ più difficile dire che fanno ancora il lusso… mi piace prendere come riferimento Pagani perché resta una realtà quasi artigianale in cui le cose si fanno ancora con le mani e per me questo è fondamentale”.
Parlavamo dei clienti… Qual è il cliente tipo di Pineider e che valori cerca nei vostri prodotti?
“Il nostro cliente è variegato. Uno penserebbe che dato facciamo carta e penne e il mondo si muove soltanto nel digitale i giovani per esempio non si avvicinino a Pineider e questo è sbagliato, nel senso che abbiamo sempre più giovani che si avvicinano al mondo della carta, della scrittura, della pelletteria di un certo tipo. Quindi è un cliente che va dai 20 fino ai 70 anni. Principalmente maschile, ma questo dipende, o è dipeso, dalla nostra offerta, perché si è concentrata in passato particolarmente sull’uomo. Ma questo cambierà e cominceremo ad aprirci. Io vorrei che la nostra offerta diventasse sempre più genderless, quindi non vorrei segmentarmi da solo ma vorrei che fosse il cliente a scegliere. Sicuramente è un cliente culturalmente sofisticato, a cui piace vivere. Forse è un edonista, a lui piace farsi del piacere e sicuramente è in grado di prendersi il piacere dai momenti della vita importanti. Stiamo lavorando per allargare tutto questo orizzontalmente diventando un po’ più ‘lifestyle’: per connotare uno stile di vita. Pensiamo che l’uomo la donna contemporanei abbiano tre momenti principali nella loro vita di tutti i giorni: il lavoro, le passioni e la cura di sé stessi, che diventa sempre più importante. Vorrei costruire tre universi con il prodotto, con l’esperienza e con quello che facciamo che si avvicinino sempre più a questi momenti fondamentali della vita di una persona, proprio perché questo ci aiuta a trovare quell’emozionalità nel collegamento con il prodotto che altrimenti è difficile sviluppare. Quando parlo della sfera del lavoro penso a momenti di successo, ma anche a momenti difficili, in cui quello che ci circonda ha comunque un ruolo: pensiamo ad una penna per firmare il contratto quello giusto, pensiamo ad una cartelletta per portarlo a casa. In qualche modo l’oggetto diventa importante e quindi devo averne cura. Avere attenzione anche per l’oggetto che sto usando in quel momento importante. La stessa cosa vale per le nostre passioni, per quello che ci piace fare: che sia dipingere, che sia scrivere, che sia anche fare un viaggio. Anche in questi momenti ci vogliono oggetti fatti in una certa maniera. E infine la cura di sé stessi. Sto cercando di costruire un mondo in cui al di là delle categorie merceologiche esistano quelli che io chiamo universi espressivi, attorno ai quali raccogliere un certo tipo di clientela”.
Secondo lei può essere che molti giovani si avvicinino a questo mondo perché sentono un po’ etereo il digitale?
“Forse. C’è anche un po’ la voglia di riscoprire una vita più essenziale e torno all’idea di prendersi del tempo. E tutte le cose che abbiamo detto richiedono tempo. È assolutamente dimostrato che se io scrivo un’email o una lettera a mano il processo mentale è completamente diverso. Quando voglio scrivere veramente quello che sento, voglio trasmettere le mie emozioni. Per me stesso se scrivo un diario, o per qualcuno se scrivo una lettera. Questo richiede uno sforzo particolare: un momento che devo trovare con me stesso in cui raccolgo tutto: le mie emozioni, i miei sentimenti. Anche il mio razionale. Ma per metterlo su carta ci vuole più tempo e credo che anche i giovani stiano riscoprendo questo, come stanno riscoprendo la bellezza di mettere dei pensieri su carta e poterli leggere dopo 10/20 anni”.

Avevo letto di uno dei padri fondatori del WEB che dichiarava che stiamo costruendo un nuovo medioevo digitale. Fondamentalmente perché se ci piace una foto è bene che ce la stampiamo, poiché un giorno non sapremo con quali device fruirne. Ad esempio qualche anno fa usavamo i VHS per guardare un film. Oggi non abbiamo neanche più la porta per i DVD su un computer. Un libro ce l’avevamo nel Medioevo, nel Rinascimento e ce l’abbiamo ancora oggi. Basta saperlo leggere…
“Alle elementari avevamo il nostro diario, oggi questa abitudine è tornata. Lo vedo con le mie figlie, che hanno 15-16 anni. E loro scrivono per loro stesse. È anche un modo per staccarsi da tutta la velocità. Un TikTok e un quaderno sono due mondi completamente diversi e permettono anche di fare un percorso interiore differente”.
Cos’è secondo lei il lusso nella scrittura e negli strumenti di scrittura?
“Forse è quello che ho appena detto: la possibilità di prendersi del tempo e di avere un oggetto particolare che uso in momenti particolari o con cui ho un legame emozionale. Perché la mia penna bella è un concetto che esiste. Lo vedo sempre più spesso: quando devo firmare un contratto prendo la penna bella, quando devo scrivere una cosa prendo la penna bella. Quello è lusso. Ed è chiaro che la penna bella è qualcosa che deve rispecchiare il saper fare italiano, è un certo tipo di artigianalità. Deve essere un oggetto particolare”.
Che tipo di rilancio state attuando? Quali sono le vostre strategie in un’epoca così particolare come questa?
“È un’ottima domanda e non sono neanche sicuro di riuscire a rispondere appieno perché è interessantemente difficile. C’è un cambiamento epocale in essere. Siamo sempre stati abituati a pianificare: soprattutto per fare business si facevano piani a 5 o a 10 anni. Oggi quando si riesce a fare un piano semestrale è già un lusso. Questa incertezza è la nemica principale di qualsiasi tipo di business. Lo vediamo con le borse: l’incertezza non è gestibile e quindi noi ci stacchiamo un po’ da tutto quel che ci succede intorno. Io cerco di lavorare su quello che è Pineider. Il lavoro che ho fatto in questo primo anno è stato quello di tornare un po’ indietro: guardare la storia, cercare di capire qual è l’essenza di Pineider, ricostruire un ragionamento di brand che partisse dai valori di Pineider e intorno a questo ricostruire un po’ quel che Pineider deve essere per gli altri. Abbiamo lavorato su tutta quella che è la dimensione operativa, abbiamo ricominciato a lavorare sul design. Sul capire che cosa sarà Pineder domani. Stiamo cercando anche di dare un senso ai luoghi Pineider. Per me questo, come i nostri altri luoghi in Italia, non sono solo delle boutique, ma sono dei luoghi dove ci piace stabilire connessioni autentiche, trovare quei momenti in cui ci si siede e ci si racconta: dove si possono attirare partner che sono altre eccellenze italiane proprio perché questo diventi una sorta di ecosistema di persone e di oggetti un po’ differenti da quello che si può trovare ovunque. Una attenzione al dettaglio di manifattura: quei piccoli caratteri che definiscono la nostra offerta e anche quella di tante altre eccellenze italiane”.