Pierfrancesco Favino: “l’automobile è un’esperienza emotiva, come il cinema”
In occasione del Concorso d’Eleganza di Villa d’Este 2025 abbiamo intervistato Pierfrancesco Favino per una conversazione a tutto tondo: tra eccellenza, BMW e cinema, un viaggio tra passioni condivise e riflessioni personali
In uno dei contesti più iconici al mondo per chi ama lo stile, le auto storiche e il fascino del tempo che scorre lento e impeccabile, abbiamo incontrato Pierfrancesco Favino. A Villa d’Este, durante il prestigioso Concorso d’Eleganza, l’attore romano non era solo ospite d’onore, ma anche protagonista in qualità di ambassador di BMW Italia. Tra carrozzerie d’epoca, motori che hanno fatto la storia e panorami mozzafiato, ci siamo confrontati con lui in un dialogo a cuore aperto. Ecco cosa ci ha raccontato.

Ci troviamo a Villa d’Este, circondati da capolavori su quattro ruote. Cosa ti ha lasciato questo tuffo nel passato? C’è una vettura a cui sei particolarmente affezionato?
“La mia prima auto è stata un’auto d’epoca: una Karmann Ghia del ’71, gialla limone, cabriolet. Ho sempre avuto una passione per il design del passato e qui ho riscoperto una vera fascinazione per le auto degli anni ’50 e ’60. Le trovo estremamente sexy. Più che per le prestazioni tecniche, per me l’auto è un’esperienza emotiva. Camminare tra questi esemplari ti fa percepire quanto fossero pionieristiche: non costruite per praticità, ma per esplorare, per rompere il limite. È una sensazione fisica”.
Cosa significa essere il “volto” di un marchio come BMW?
“BMW è parte della mia vita da tempo, come cliente prima ancora che come ambassador. Per me guidare è un piacere, il viaggio è tempo per pensare, per riflettere. BMW incarna tutto questo con una cura spasmodica per il dettaglio e una visione del futuro che va oltre l’elettrico: parliamo di filiera produttiva, materiali, sostenibilità. C’è un’ossessione sana per l’innovazione. Ogni volta che li incontro, il dialogo va ben oltre le occasioni ufficiali. C’è un interesse vero nel capire dove va l’automobile e come costruirla con senso”.
Dalla moda al food, passando per il lusso e l’automotive, il nostro è un Paese di eccellenze. In che modo questo si riflette nel lavoro di attore?
“È qualcosa che porto con me anche quando lavoro all’estero. Non cerco di nascondere le mie origini, anzi. Noi italiani abbiamo una cifra espressiva, culturale, che ci rende riconoscibili. Certo, esiste ancora il cliché – quello che riduce tutto a pizza, mandolino e mafiosi – ma ho sempre cercato di evitarlo. L’eccellenza per me è la possibilità di far vedere che possiamo raccontare storie complesse, anche su palcoscenici internazionali, senza rinunciare alla nostra autenticità”.
A proposito di autenticità: hai percorso 5.000 km in bicicletta per prepararti al ruolo di Bartali. In quanto tempo?
“In quattro mesi. Uscivo ogni giorno. Qualsiasi ciclista amatoriale ti direbbe che non è una cifra eroica, ma era necessario. Se interpreti un uomo come Bartali, non puoi fingere di sapere cosa significa pedalare su quei telai pesanti, con quei cambi, su strade sterrate. Il corpo è uno strumento fondamentale per un attore. E anche l’emotività, la psicologia. Devi mettere insieme ciò che appartiene a quell’uomo… e inevitabilmente, anche un po’ della tua esperienza di vita”.
Parlando di motori… ti vedi mai dietro a quello di una macchina da presa?
“Non credo che quello alla regia sia un passaggio obbligato nella carriera di un attore: se mai avrò una storia che sento di voler raccontare personalmente, forse ci proverò. Ma ho molto rispetto per chi sta lottando per realizzare il proprio primo film, per chi ha studiato per fare il regista. Sarebbe un passo da fare con coscienza, non per inerzia”.
Hai interpretato Clay Regazzoni in “Rush” di Ron Howard. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
“Innanzitutto un’amicizia profonda con Daniel Brühl e Chris Hemsworth. Poi l’emozione di girare a Silverstone con le repliche delle Ferrari del ’76… È stato un sogno da bambino. Ma anche una presa di coscienza: quelle auto erano vere bestie da domare. Guidarle ti faceva capire quanta abilità servisse. E oggi, ironia della sorte, sono le mie figlie a essere appassionatissime di Formula 1”.

Ami la velocità?
“L’amavo di più quando avevo meno paura. Adesso sto scalando. Però la velocità è una sfida dell’uomo da sempre. Se ci pensi, molte Case automobilistiche sono nate in zone di pianura, dove l’orizzonte sembra non finire mai. È il desiderio di scoprire cosa c’è oltre. Il motore è come il volo: un tentativo di rompere i limiti fisici. L’automobile ti fa essere altrove. È quasi un gesto superumano”.
Ti porta a superare i limiti…
“Sì, ma anche avere un rapporto sensoriale, personale con lo strumento che te lo consente. Non è solo funzionalità. È confidenza, emozione. È come il mestiere che faccio: ci metti dentro te stesso, e in cambio ottieni un’esperienza che trascende la semplice tecnica”.